de il7 – Marco Settembre
PARTE I
PARTE II
Maya Deren (Kiev, 1917 – New York, 1961) alias Eleanora Derenkovskaja, russa di origine ebraica nata poco prima della Rivoluzione d’Ottobre, emigrò con la famiglia negli Stati Uniti. Era stata battezzata col nome di Eleanora in onore della “divina” Duse, ma dopo l’anglicizzazione del cognome in Deren l’artista cambiò anche il nome in Maya, per riflettere il rapporto illusionistico indagato da Shopenhauer tra realtà e rappresentazione, ma anche alludere all’omonima dea indiana e alla madre del Buddha. Questo accadde dopo gli studi di scienze politiche, la laurea in Letteratura inglese e poesia simbolista, l’infatuazione per la danza con il relativo tour con la Katherine Dunham Dance Company, e l’inconro con il filmaker cecoslovacco Alexander Hammid a Los Angeles, con cui produsse il capolavoro Meshes of the afternoon. Il senso di sradicamento tipico degli immigrati, la ben assimilata “lezione” surreal-simbolista di Bunuel e Cocteau, i significati psicanalitici dovuti anche all’influenza del padre psichiatra, e la successiva fascinazione per lil Buddhismo e l’antropologia confluirono in un profilo di artista proto-femminista che realizzò “psicodrammi poetici” in cui lei stessa spesso è protagonista, ma in cui l’identità, la logica spazio-temporale, le convenzioni borghesi, le culture esotiche, grazie ad un montaggio tanto onirico quanto rit-mico, sottoponevano a uno spaesamento trascendente le convenzioni del realismo hollywoodiano. Collaborò con la scrittrice Anaïs Nin e l’artista Marcel Duchamp, e conobbe anche il compositore John Cage e l’antropologo Gregory Bateson. Nel 1986 è stato istituito il Maya Deren Award come incentivo e riconoscimento per il lavoro di filmakers contemporanei.
“At land” è il suo secondo film, realizzato nel 1944, sempre in 16mm. L’uso delle immagini è poetico, rifiuta una narrativa univoca e razionale; libera piuttosto le capacità simboliche e associative, crea suggestioni col flusso di energia creativa. Spazi anacronistici ed eterogenei sono collegati, nell’abile montaggio, dall’azione della protagonista, portata su una spiaggia da onde che – compiuta tale missione – sembrano ritirarsi. La ricerca meta-dimensionale della inquieta donna sembra essere un viaggio extracorporeo, che tuttavia non esclude la fisicità dell’arrampicata sul tronco di legno, la quale sfocia magicamente sul lungo tavolo su cui si svolge una cena, e su cui di nuovo faticosamente la Deren avanza strisciando tra l’indifferenza dei com-mensali, simbolo delle formali miopie borghesi. La partita a scacchi è una chiara citazione di Man Ray, ma la ricerca del pedone ruzzolato sul tronco, e poi tra le rocce in cui scorre il fiume fino alle cascate è il portato, pur espresso con grazia femminile, di un’ansia e di una instabilità legate al latente statuto ontologico delle cose, ma forse anche alla lotta solitaria che ogni artista compie nel cercare di dar corpo e senso alla propria visione. Al culmine di un percorso erratico, la Deren con astuzia recupera il pedone e si allontana lungo la spiaggia da cui era partita, lasciandosi dietro le altre sè stesse.
il7 – Marco Settembre