SALVATORE INSANA | Quattro domande

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de il7 – Marco Settembre

Nel percorso verso la realizzazione dell’opera, quanto ti sono utili le riflessioni di Gene Youngblood e di Gillez Deleuze e quanto invece pesa l’occasionalità dello spunto, il confronto con l’esperienza del reale?
Nelle mie ricerche video-artistiche spesso parto da un frammento di “reale”, da un materiale che attrae il mio sguardo per la sua ambiguità, per la sua inafferrabilità, per il suo lirismo nascosto: un travaglio mentale che parte dalla retina e passa a livello neuronale. Il discorso teoretico-critico viene sempre appena dopo e poi si fa anche abbastanza analitico, con la consapevolezza di agire sempre in aperta polemica con il presente (delle immagini, dell’immaginario, dei media – quello insomma con il quale entro più spesso in conflitto o in dialogo). E qui si fa spazio tanto il cinema espanso di Youngblood quanto l’immagine-tempo e il ripiegarsi della materia su sé stessa di Deleuze, entrambi ormai parte integrante della mia visione…

Ti pongo una domanda provocatoria: come si concilia l’antiautoritarismo con cui proponi immagini slegate da una logica preconfezionata e l’ambizione con cui tendi a rappresentare l’audelà?
L’audelà è ovviamente irrappresentabile, verrebbe da dire per fortuna. Non c’è ambizione ma solo tensione ideale ad andare oltre gli schemi e i linguaggi narrativi e interpretativi più convenzionali e privi di “illuminazioni”. Il tentativo è di superare soprattutto quella logica che soppianta l’interesse verso la forma attraverso un’attenzione e una cura spasmodica verso il contenuto.

Nel tuo blog si legge: “Sam ama chi prova a lanciarsi dentro un cerchio infuocato e non ci riesce”. Che rapporto imposti tra i testi tuoi o altrui e la tua ricerca filmico-teatrale? È un lavoro di adattamento o il riconoscimento di un disadattamento reci-proco tra codici diversi?
Non ci adatta mai, non lo si dovrebbe mai fare. Giudicarsi adatti potrebbe essere il principio della fine. La calma piatta della ricerca. I testi vengono disadattati semmai, rivisitati e traditi per onorarli, per glorificarne la loro vitalità. Niente istruzioni prescritte da altri. Quel che leggo si mescola, si scontra, si incontra con quel che scrivo. Poi prevale di solito la sovrascrittura, la moltiplicazione dei linguaggi, la sovrimpressione stratificata di suggestioni. Ancora sono nella fase di raccolta degli stimoli.
Quali sono gli autori (testuali e filmici) che più ti hanno influenzato e qual’è vice-versa, il segno che afferma la tua riconoscibilità?
I punti di ri-ferimento (prendendo il termine anche alla lettera…) sono tanti e centrifughi. In principio fu Ejzenstein e lo stimolo a trattare la materia visiva con l’estrema attenzione compositiva dell’analista che ha a cuore l’estasi. Poi arrivò John Cage, il suo rivoluzionario anti-autoritarismo, la lotta an-archica contro il pre-stabilito. La furia ostinata di Roberto Nanni. La visionarietà di Bokanowski. Il baratro visivo di Lynch. L’aldilà di Giorgio Manganelli. Carmelo Bene. L’eccentricità lirico-scientifica di Gianni Toti. L’esattezza leggera di Luigi Ghirri.
Come atteggiamento nei confronti del mondo invece, prevale la deriva iper-urbana, il conflitto insanabile, insaziabile con la società, quello di Debord, ma anche quello di Buster Keaton.

Per quanto riguarda l’auto-analisi ancora non penso di ri-conoscermi a sufficienza. Mi interessano i corpi in movimento nella loro inafferrabilità, nel loro metamorfico e tragico sfuggirci. Mi interessa indagare più a fondo sui limiti della visione, sugli “spettri visivi”. Gli inganni della luce, la sua ambiguità. E poi andare oltre lo specifico del digitale, che è ri-manipolazione del reale, realtà tanto aumentata da risultare infinitamente mistificata. La mia è innanzitutto una polemica contro “l’alta definizione”. Citando Jean Luc Godard: <<Si parla di alta definizione come se dire Definizione non fosse sufficiente. (…) La macchina da presa non è una certezza, è un dubbio>>.

 de il7 – Marco Settembre